Gomorra – Filosofi Camorristi

Quando si pensa alle arti vengono in mente i soliti noti: il recitare, il dipingere, il cantare. Si tende, dunque, a sottovalutare una quantità molto piu´ variegata di capacità umane, a cui spesso si deve dedicare altrettanta dedizione e fatica.
Di seguito 5 talenti ingiustamente sottovalutati: alcuni di essi si sono evoluti in vere e proprie competizioni, altri restano fedeli al filone dell’entertainment o dell’arte fine a se stessa.
1 Limbo Skating
Detto anche Roller Limbo, è uno sport che prevede che la persona in questione passi sotto al ben noto bastone del limbo, con i roller skates ai piedi. Per fare questo deve assumere una posizione inclinata in avanti e allargare le gambe a 180 gradi. Mi fa male solo pensarci.
Da due anni il record di Limbo Skating è nelle mani di Gagan Satish, un bambino di Bangalore che ad oggi ha 8 anni. Gagan, nel 2014 è stato in grado di passare sotto a 39 auto, in uno spazio di 12,7 cm, coprendo una distanza di circa 70 m.
Enjoy the ride!
2 Gara di rutti
Detta così, sembra una cosa banale da ragazzini delle medie. In effetti, le gare di rutti (ne esistono più di quanto si creda) di solito si limitano all’esecuzione di rutti standard prolungati nel tempo e ampliati nella potenza. Piuttosto noioso. Esistono però geni esecutivi anche in questo campo, in grado di recitare intere frasi, a volte anche articolate, ruttando.
Nel 1992 a Monferrato in Piemonte si svolse una di queste gare. Finaliste due ragazze, bocciuolini di rosa. La prima, la cui memoria andrà perduta nel tempo come lacrime nella pioggia (scusate mi sono lasciata trasportare dalla poesia), riuscì ad enunciare in un rutto solo “Ali Babà e i quaranta ladroni”. La lodevolissima prova non bastò a raggiungere l’agognata vittoria al momento in cui la seconda finalista, Alessandra, riuscì anche lei in un unico “suono” a bruciare l’avversaria con un “Ali Babà e i quaranta ladroni…con un rutto!”.
3 Sputo del nocciolo di ciliegia
Il piccolo comune di Celleno, in provincia di Viterbo, ospita da circa 10 anni l’annuale gara dello sputo del nocciolo di ciliegia. Le categorie partecipanti sono quelle di uomini, donne e bambini.Il vincitore riceve una coppia, come nei migliori tornei, e un cesto di ciliegie.
Il recondo di sputo è di 20,30 m ed è attualmente detenuto dal signor Mauro, mentre l’ultima edizione è stata vinta da Elisa, dolce madre di famiglia, con uno sputo di 10 metri. I rimbalsi del nocciolo sono ammessi.
La ciliegia si presta pero´ anche ad un altro talento, ben più elengante: fare il nodo al picciolo con la lingua. Non ne sono sicura ma credo che questa attività sia nata, o almeno abbia subito una impennata, nel momento in cui Audrey Horne appare in Twin Peaks e si esibisce nella scena della ciliegia.
Se ci provo a farlo io, sembro una mucca ruminante però.
4 Penis Portrait
Ultimamente alcuni uomini si sono resi conto che il pene è una perfetta superficie mobile in grado di produrre quadri. Meno male, oltre le gambe c´è di più, verrebbe da dire! Effettivamente, se la lunghezza lo consente, questa tecnica permette un contatto estremamente diretto e fisico con la tela, senza nulla togliere al grado di difficoltà: l’inclinazione del corpo verso la tela, infatti, non si puo´ definire del tutto ideale all’ esecuzione.
Eppure i nostri eroi, incuranti delle difficoltà prospettiche, sguaiano la sciabola in favore della madre Arte.
Sono diversi i buontemponi che si dedicano a questa tecnica: Brent Ray Fraser, australiano, muscoloso, biondo (un cliché in pratica), Il celeberrimo Pricasso, inglese residente anch’egli in Australia, e la nostra terribile vesione italiana: Penelò, presentato al pubblico dal sempre prodigo Andrea Diprè.
Spezzando una lancia in loro difesa (solo la lancia) va detto che a volte il risultato non è affatto male.
5 Ping pong show
Di tutti i talenti del mondo, questo è sicuramente il mio preferito.
Il Ping pong show è in realtà noto a tutti quelli che sono stati in Thailandia. O, in alternativa, a tutti quelli che hanno visto “Priscilla, regina del deserto”
No, non è un torneo speciale di ping pong anche se le palle da ping pong svolgono un ruolo fondamentale.
Il ping pong show è uno spettacolo erotico in cui, avveneti (più o meno) signorine thailandesi si infilano nella vagina delle palline da ping pong, per poi spararle sul pubblico.
Questo nel più semplice dei casi. Altre variazioni sul tema prevedono il lancio di freccette per colpire palloncini, la fuoriuscita di pesciolini rossi, scrivere e stappare bottiglie di birra, il tutto, ladies and gentlemen, senza mani!
Il ping pong show è piuttosto inviso ai più, in quanto, in alcuni casi, presuppone un certo grado di avviamento alla prostituzione.
Questa però non è la norma: e´ probabile che in resort turistici conosciuti per il turismo sessuale come Pattaya e Patong, possano esserci dei casi di sfruttamento. Ma per le thailandesi stesse, il ping pong show è considerato un lavoro assolutamente normale. E’ ben pagato, ma è estremamente faticoso (bisogna allenarLa di continuo, non so se rendo), per cui chi è benestante, e magari un po´ pigra, non necessariamente lo fa. Inoltre va detto che le donne thailandesi impazziscono per l’uomo europeo e per loro lavorare in un night club rappresenta una occasione per incontrarne diversi. Uomini ai quali probabilmente in Europa molte donne pur di non concedervisi, se la farebbero chiudere.
Al di là di quello che se ne pensi, io ho avuto il piacere di assistere a un ping pong show a Bangkok (non potevo resistere alla curiosita´), e ne sono rimasta assolutamente affascinata. Credo che non ci sia traduzione letterare al mondo più calzante del ping pong show al concetto di “potere della figa”.
Buon lunedi!
Il maccartismo è stato, al di là dell’opportunismo carrierista del suo protagonista principale, un periodo di diffusa paranoia e oscurantismo. Chi però pensa che un periodo del genere non possa ripetersi, sotto altre forme, sbaglia.
Cercherò di prenderla un po’ alla lontana, per cui abbiate pazienza. Ho cambiato parecchie posizioni nella mia vita, prima di trovarmi dove sono ora, cioè complessivamente abbastanza right of center, e conservatore, pur non essendo religioso. Nel farlo, partendo da posizioni di sinistra che hanno via via cambiato forma, ho costantemente e scientemente esposto il mio punto di vista a contraddizioni, alternative. Ho passato spesso il tempo leggendo riviste di gente di cui pensavo di non condividere nulla, principalmente per non fossilizzarmi sulle mie idee – ad esempio, ero decisamente anti-liberale quando ho letto Nozick.
Ad ogni modo, nel tempo ho accumulato amicizie, reali e telematiche, che coprono uno spettro decisamente ampio di posizioni e vissuto: dai fasci ai militanti per i diritti lgbt, dal libertario nerd al grigio funzionario di partito della Ditta, dal conservatore americano vicino al Tea Party, o europeo vicino alle posizioni dell’Opus Day, ai molti (e di tutti i paesi) liberal che leggono il New Yorker e il New York Times, da chi odia gli immigrati a chi viene dai paesi che subiscono il razzismo dei primi, e così via. Alcune di queste persone, alle volte, si ritengono profondamente offese da quello che penso e che dico, e ci tengono a dirmelo – spesso in privato, aggiungendo di voler interrompere ogni rapporto con me. Profilo di tutti costoro: economicamente a sinistra, sostenitore dei diritti civili, non religioso. Progressista, insomma.
Un secondo autore di questo blog ha da poco ricevuto apprezzamenti simili per aver condiviso su una chat comune a degli amici un articolo che parla male del Venezuela di Chavez.
Un altro ancora ha ritenuto di andarsene dal blog perchè offeso da quello che scrivevo. Un ultimo autore, infine, non mi parla più per lo stesso motivo. Tutti, come sempre: economicamente a sinistra, sostenitori dei diritti civili, non religiosi.
In molti, da quando ho iniziato a chiedermi se questo atteggiamento fosse effettivamente solo una percezione, hanno iniziato a raccontarmi di astenersi dall’esprimere certi punti di vista perchè temono le reazioni di colleghi e amici: ancora una volta, si tratta di punti di vista non esprimibili perchè non abbastanza vicini a quelli di chi è economicamente a sinistra, sostenitore dei diritti civili, non religioso. Chi li ha espressi, invece, mi ha raccontato di come fosse stato contattato privatamente, anche a distanza di giorni, da persone che comunicavano il loro considerarsi ex-amici per quanto emerso nella discussione.
Potrebbe essere un problema di prospettiva? Chi possiede una istruzione elevata si trova più spesso in ambienti in maggioranza progressisti. E quindi sovrastima quello che Pew dice essere comunque un fenomeno rilevante, almeno sui social media.
Ma si limiterà ai circoli più elitari? Le istituzioni ufficiali non aiutano: offrono legittimazione costante dando status di opinioni con diritti di cittadinanza superiori a opinioni come le altre. Le università, addirittura, istituiscono corsi in cui dare per assunta l’oppressione patriarcale, il liberismo come causa delle disuguaglianze, le disuguaglianze economiche come urgenza, il realismo politico come causa dei mali del mondo. Chi vuole essere intollerante sente di avere un supporto “ufficiale” del suo punto di vista. La mia università, giusto oggi, ha inviato una mail collettiva invitando a una public lecture in cui il relatore si applicherà nel seguente esercizio:
“Structural adjustment programs, austerity policies, tax competition, and growing inequalities appear more and more as limits to the possibility for citizens to democratically determine how to organize their society. (guest) will critically reflect the relationship between capitalism and democracy, addressing questions such as: Is capitalism necessarily a precondition for liberal democracy, or is it rather a hindrance to democratic collective self-determination? Should democracy become “market conform” (Angela Merkel), or should economic activities instead be democratized?”
Sono opinioni, ma in un ambiente a maggioranza di sinistra qualcuno ha la forza o il coraggio di proporre che vengano semplicemente messe in discussione da una prospettiva aperta? La versione più edulcorata di come questo sia un problema nell’accademia americana (pensate che in Italia sia meglio?) è qui, una meno ottimistica qui. Citazioni dalla più ottimistica?
“About a third of the professors we interviewed said they concealed their politics prior to earning tenure. Of course, being in the closet is not easy. (One particularly distressed professor told us: “It is dangerous to even think [a conservative thought] when I’m on campus, because it might come out of my mouth.”)”
“some 30 percent of sociologists acknowledged that they would be less likely to hire a job applicant if they knew she was a Republican. Yancey found that 15 percent of political scientists and 24 percent of philosophers would discriminate against Republican job applicants, and at least 29 percent of professors in all disciplines surveyed would disfavor members of the National Rifle Association. He found that professors are even less tolerant of evangelicals, partly because that identity is a proxy for social conservatism.”
So che molti i lettori di questo blog sono, per l’appunto, economicamente a sinistra, sostenitori dei diritti civili, non religiosi. E probabilmente riterranno questo discorso un inutile orpello vittimista. Non è così. Il problema esiste, e sta peggiorando la vita di molti. Chiunque leggerà, provi a rifletterci.
P.S.: allo stesso modo, chi ritiene di poter allungare la lista degli esempi scriva pure qui sotto. Davvero, c’è poca consapevolezza del problema, e quanto più si può fare meglio è.
Surreale che, in un Paese bloccato da mille problemi, nell’anno del signore 2016, si possa ancora fare una polemica che includa i partigiani. Non come figure storiche, ma come attori presenti nel dibattito.
Non sto qui a riassumere tutta la vicenda, che ruota secondo alcuni intorno al modo in cui dovrebbero essere considerate le opinioni di un signore con grandi meriti, nato nel 1926 e animato da grande passione civile. Ma mi limito a segnalare che – ribadisco: troviamoci oggi nell’anno 2016 – gli iscritti all’ANPI oggi non possono che essere (a) gente che ha fatto la Resistenza, ma che a parte mirabili eccezioni non sarà nel pieno delle proprie facoltà cognitive o (b) gente che si è iscritta dopo all’ANPI come ci si iscrive all’ARCI Bellezza per ballare il tango.
Ora, francamente, di fronte ai vari Ciwati che agitano i partigiani come un feticcio per “argomentare” la propria contrarietà a questo o quello, facciamo uno sforzo di maturità democratica e diciamocelo: va bene l’idea dei signori dell’ANPI, ma non è un attentato alla Costituzione pensarla diversamente.
P.S. per inciso, io non ho nè una posizione definita sul referendum nel merito, nè grande simpatia per Renzi (e pochissima per i renziani). Ma la pretestuosità, l’ipocrisia, il nichilismo e in ultima analisi l’assenza di ogni visione costruttiva dei suoi critici mi rendono ogni giorno meno antipatico il renzismo e tutti i suoi derivati.
Questo articolo si pone l’obbiettivo di permettere al sottoscritto di capire se l’impressione che Il Post abbia drasticamente calato la qualità del servizio offerto corrisponda alla realtà. Ogni giorno che passa e che visito il sito o le sue appendici nei social network, mi trovo sempre di più a pensare: “Ma che brutti articoli stanno pubblicando? Ma cos’è sta roba?!”. Fatico però ad esprimermi con certezza contro il giornale di Sofri, innanzitutto perché rimane comunque a mio parere il migliore sito di informazione online in Italia. In secondo luogo, perché vi sono in un certo senso affezionato. Infine, e soprattutto, perché più che un calo della qualità assoluta potrebbe in realtà trattarsi di un cambio nella mia domanda di contenuti, magari non verso l’alto ma di certo orizzontalmente lungo diversi argomenti. Proverò quindi ad entrare nel dettaglio delle mie sensazioni, e magari qualche lettore le condividerà.
Nel momento in cui scrivo, l’home page de Il Post presenta, in ordine di apparizione, i seguenti articoli:
Innanzitutto salta all’occhio la schizofrenia nei contenuti. Non esiste alcun ordine di genere (prima la cronaca, poi la politica, gli esteri…) né cronologico, né tanto meno di importanza. Non si spiega altrimenti il secondo posto dedicato all’arrivo di Kate Moss a Cannes. A proposito di qualità: sommessamente, vorrei stilare una classifica soggettiva di argomenti che mi interessano, di argomenti che non mi toccano ma ne capisco l’importanza per altri, di argomenti “enciclopedici” (cioè “non interessano a nessuno ma sai mai potrebbero tornare utili a Trivial Pursuit”), e infine di argomenti di un’inutilità infinita, uno vero spreco di pixel.
Ripeto: è una classificazione soggettiva. Le foto di Cannes magari sono più rosa che rosse, mentre qualche verdino potrebbe essere considerato da altri un quasi rosso. Tuttavia mi spaventa che il 30% degli articoli sia di scarso se non nullo interesse. A peggiorare la situazione è la disposizione randomica dei titoli, perché mentre con il Corriere ho capito che alla seconda scrollata entro nel fango, su Il Post questo trucco come vedete non vale.
Vale la pena dare un’occhiata agli articoli pubblicati su un solo argomento, particolarmente caro alla redazione, anzi direi quasi un’ossessione: Obama. Cerchiamo le ultime pubblicazioni con il tag “Obama”, nel periodo 21 marzo-5 maggio:
Obama <3 Star Wars
Gli invitati famosi alla cena dei corrispondenti
Chi ha inventato il mic drop?
Le migliori battute di Obama alla cena dei corrispondenti
La lettera di una bambina di otto anni ad Obama
Le foto di Obama con la famiglia reale britannica
Ma Obama e i sauditi, cosa devono da dirsi?
Qual è stato il peggior errore di Obama, secondo lui
La prova che Obama è un gran ballerino
Obama ha ballato il tango a Buenos Aires
Le foto dell’ultimo giorno di Obama a Cuba
La diplomazia nel baseball
Obama ha fatto un brutto scherzo a Raul Castro
La frase di Fidel Castro su Obama e il Papa è falsa
Le foto di Barack Obama a Cuba
No, dico, rendiamoci conto di che notizie ha pubblicato Il Post nell’arco di meno di due settimane.
Per assurdo, è la colonna destra a riscattarsi, perché laddove i siti mainstream ci buttano dentro un’accozzaglia di puttanate, Il Post mantiene inalterato il vecchio stile con le notizie in tempo reale (beh, oddio, l’ultimo aggiornamento è di 8 ore fa), lo spazio ex-Makkox, le photogallery (ahimé, le stesse del lato sinistro) e infine le nuove sezioni: Moda, Libri, Flashes.
Ecco. Parliamo un attimo delle sezioni. Il Post deve averci puntato molto, visto che ci ha dedicato pagine indipendenti sui social, trainate attraverso condivisioni costanti da parte della pagina principale. Tra queste domina Flashes, che di fatto è ciò che ha fatto traboccare il vaso della mia crescente insofferenza. Flashes è – usando sempre toni sommessi e pacati – un’accozzaglia di puttanate inutili, una discarica a cielo aperto che continua ad buttare fuori tonnellate di merda. Flashes è presumibilmente l’alter ego esatto de Il Post. Nessuna notizia, nessuna qualità, solo video simpatichelli per acchiappare più visualizzazioni possibili. Ora, anche “Il Vecchio Post” strizzava l’occhio ai lettori mettendo, tra un fact-checking di Di Luca e un editoriale di Facci, qualche articolo stupidotto su Game of Thrones, su qualche spot catchy, su qualche mostra particolarmente curiosa. All’interno di una grande sfera bianca, c’era una piccola goccia nera che rendeva più umano il sito. Ecco: come lo yin/yang è apparso Flashes, una grande sfera marrone con qualche piccola goccia bianca ogni tanto.
Negli ultimi mesi sfogliavo certe galleries del Corriere e mi dicevo: “Pensa, questa gallery qualche anno fa la faceva solo il Post”. Ma mi stavo sbagliando. La realtà è che è avvenuta una specie di scambio: da un lato i giornali hanno imparato a usare i titoli à la Sofri (il famoso argomento “spiegato bene”) mentre dall’altro Il Post ha cominciato ad importare vaccate (non dal Corriere, ma dai siti americani, cosìcche` in effetti non si tratta di “stronzate” ma di “bullshit”, parola più cool).
L’esistenza di Flashes è la mia leva per scardinare il bias dettato da un cambio nei miei gusti, cioè il rischio che: “Il Post non è cambiato, sei tu che ti sei stufato di certe cose”. Certo, ammettiamo che Il Post sia rimasto lo stesso di sempre: ora però ricevo notifiche anche da Flashes, per cui la percentuale di inutilità (o meglio, di “notizie che non lo erano”) è aumentata spaventosamente.
Penso che la redazione si sia resa conto di ciò che stava accadendo, e cioè che a furia di seguire siti come Buzzfeed stesse letteralmente rinunciando alla qualità originaria dei propri contenuti. Paradossalmente, la risposta al problema è arrivata dalla polemica sorta nel mondo dell’editoria dopo che Buzzfeed aveva postato un video su cosa succede se si avvolge di elastici un’anguria. “Molti osservatori […] si chiedono come una testata possa mantenere una propria credibilità con iniziative di questo tipo e di fronte al successo tentatore che ottengono, che sempre secondo loro non hanno nulla di giornalistico”. L’articolo de Il Post chiama a testimonianza i principali quotidiani anglosassoni e i vari social network; è un pezzo che richiama il buon vecchio stile del sito, fatto di lunghi paragrafi dettagliati, ma giunti a questo punto non mi può non venire il sospetto che sia invece una supercazzola autoassolutoria. Come dire che non si tratta di una risposta a “Come possiamo migliorare?” bensì a “Come possiamo giustificare le nostre scelte infelici?”
Scelte infelici quali la sostanziale distruzione della sezione dei commenti. Qui ne parlo veramente addolorato e un po’ mi vergogno pure, come una moglie che si era ripromessa di accettare senza sindacare un errore commesso dal marito salvo poi rinfacciarglielo davanti agli avvocati divorzisti. Fino a qualche anno fa una frase tipica dei frequentatori de Il Post era “Lo leggo anche solo per i commenti”. Si era infatti create una community forte, incentrata su un nucleo di persone educate, intelligenti, esperte ed ironiche. Per citarne alcuni, a memoria: Aghi di Pino, Uqbal, Umberto Equo, Wonder Virgola, e il mio preferito, Sfrj. Il sito poi aveva implementato – unico all’epoca, per quanto ricordi – Disqus, sovrastando per qualità ed efficienza i colossi dell’editoria. Poi l’infausta notizia: Sofri comunica che i commenti verranno severamente filtrati e potrebbero volerci minuti, anzi ore tra l’invio e la pubblicazione. E mentre sul sito la community crollava, su Facebook aumentava il tasso di pubblicazioni (Flashes) con il problema che sul social la qualità dei commenti è indistinguibile da quelli delle pagine di Salvini o Repubblica.it.
Fortunatamente, le persone che avevano spontaneamente dato tanta qualità a Il Post non si sono scoraggiate e hanno fondato una community, Hookii.it, che funziona divinamente e che permette di commentare senza freni gli articoli di Sofri & Co. (ma non solo quelli). E tuttavia, per quanto possa essere cocente la delusione per tutte la strana, brutta strada che ha preso il sito e che temo verrà ancora percorsa, rimane una sorta di fedeltà da un lato e di mancanza di alternative dall’altro che quanto meno fa da rete di salvataggio. Ma per quanto ancora?
Intanto, sorbiamoci l’ennesima photogallery su Obama.
“Non si comprende come così vasta enfasi ed energia sia stata profusa per cause che rispondono non tanto a esigenze, già per altro previste dall’ordinamento giuridico, ma a schemi ideologici”. Questa frase l’ha pronunciata il Presidente della CEI Angelo Bagnasco riferendosi all’approvazione della legge sulle unioni civili. Si lamenta il Monsignore del tempo sprecato dal Parlamento per le unioni civili. Lo stesso Monsignore però si era anche lamentato del fatto che il governo avesse posto la fiducia sulla legge, permettendo sia al Senato che alla Camera di approvare la legge in un giorno. Sempre parlando di sprechi di tempo ed energie, non ricordo nemmeno una parola di condanna per quei parlamentari (molti dei quali tengono a farci sapere che sono cattolici) che erano pronti a impantanare il Parlamento con migliaia di finti emendamenti alla legge. Per non parlare del tempo che sprecano quotidianamente le varie sentinelle di non si sa cosa o i partecipanti al Family Day per impedire che tutti i cittadini abbiano uguali diritti. Ecco, volevo augurare a Monsignor Bagnasco e a tutti quelli che hanno a cuore il buon utilizzo del tempo parlamentare una buona giornata mondiale contro l’omofobia.
Parliamoci chiaro: Luca Mazzone, autore di questo post, la puntata di Virus sulle vaccinazioni non l’ha proprio vista. O, se l’ha guardata, forse nel frattempo stava facendo altro (stirare? Leggere un Harmony? Scommettere alle corse dei cavalli?).
Perché un conto è rivendicare il diritto a informare e a mostrare l’ignoranza per quello che è (perfettamente incarnata, nel caso specifico, dalle teorie di Red Ronnie), ma tutto un altro paio di maniche è difendere un prodotto destinato al pubblico generalista che presenta il dibattito su un problema scientifico come “confronto fra idee”. D’altronde, ‘Il contagio delle idee’ è proprio il titolo che il giornalista Nicola Porro ha voluto dare alla parte del suo programma dedicata ai vaccini, quasi a sottolineare che, in fondo, le personalissime opinioni di un DJ degli anni ‘70 hanno lo stesso peso dei dati presentati da un virologo di lungo corso, Roberto Burioni. E se questo non fosse stato abbastanza chiaro abbastanza sin dall’inizio, a un certo punto è lo stesso Porro a ricordare agli ospiti che l’intervento di Eleonora Brigliadori, attrice e conduttrice televisiva convertitasi all’antroposofia, è una “posizione da rispettare e da sentire”, esattamente come i fatti riportati qualche minuto prima dal medico e ricercatore Burioni.
Tutto questo basterebbe di per sé ad affossare la credibilità di un talk-show che vorrebbe fare informazione (dati scientifici ≠ opinioni), ma fingiamo, anche solo per un attimo, di sostenere la necessità del dibattito ad ogni costo (in nome di una presunta quanto fittizia potenzialità euristica della discussione da bar), e andiamo a vedere concretamente fino a che punto si è spinta la par condicio del conduttore Nicola Porro. Nel corso della trasmissione, il dottor Burioni interviene solamente una volta, mentre Red Ronnie prende la parola a ben tre riprese, alternato da un mix di opinioni (favorevoli o contrarie) di non-specialisti, genitori con esperienza traumatiche di vario tipo e gente fermata per strada (sic!). Il segmento si conclude poi con il delirio di Eleonora Brigliadori, che di fatto chiude la discussione senza che l’unico scienziato presente in diretta abbia la possibilità di replicare alle baggianate dell’attrice; al netto di 31 minuti circa di dibattito a Burioni viene lasciata la parola per soli 3 minuti – meno del 10% della durata complessiva del programma.
Insomma, alla scienza è stato lasciato ben poco spazio nel salotto democratico di Nicola Porro, che a quanto pare preferisce dar libero sfogo ai matti del villaggio piuttosto che approfondire la questione con la deontologia professionale che il suo ruolo richiederebbe. Qualunquismo non è progressismo, caro Luca Mazzone, e la libertà d’opinione a cui fai appello con tale veemenza nel concreto si riduce a puro brainwashing mediatico. Tanto più che qui vi è in ballo la salute dei minori, non qualche principio libertario sparato a caso giusto per compiacersi della propria onestà intellettuale.
Onestà intellettuale di cui, nel caso di Porro, non si è proprio vista ombra.
Non guardo molta tv, tra le altre ragioni perchè non trovo interessanti i talk show, mi annoia la pubblicità, e alla fine se ho tempo libero preferisco impiegarlo in un altro modo.
Capisco però che per molti, per formazione o per il modo in cui occupano le giornate, vi facciano ricorso per informarsi, o per costruirsi una opinione circa le cose del mondo. È così da decenni, e il modo in cui è strutturato Internet da qualche anno a questa parte (ne parla Morcy in un bel post qui, al quale spero avrò il tempo di rispondere) non ha cambiato di molto le cose. Insomma, in qualche modo la televisione ancora conta.
Ora, nella tv di oggi esistono vari personaggi che, in una scala di preferenze che vanno dalla Gabanelli a Paragone, usano lo spazio per propagandare le loro tesi. In entrambi i casi, a mio parere, si tratta quasi sempre di cazzate irrazionali e criminali, di disinformazione e di sensazionalismo, e un direttore editoriale con un minimo di senso della sua professione, di lungimiranza o anche solo di buon gusto chiuderebbe la trasmissione e farebbe un cazziatone ai responsabili. Non è questo, almeno non sempre, il caso degli altri talk show. Che mancano di approfondimento (i tempi televisivi purtroppo quelli sono), di temi interessanti e di ospiti decenti, ma non sono necessariamente delle antenne di propaganda – questo è il caso del programma di Porro, per quanto ho potuto vedere.
Ora, in questi giorni Porro è sotto attacco per aver dato spazio a una serie di ciarlatani intenti a convincere la gente di cose pericolosissime come il non credere mai alla necessità delle vaccinazioni obbligatorie – se ne parla bene qui; la sua difesa, però, merita di essere considerata. Dice Porro, in sostanza, che settori importanti della società hanno iniziato a convincersi di queste follie (vero) alle quali personalmente lui non crede per nulla (bene) ma che l’unico metodo per combatterle è parlare apertamente con gli estensori di queste teorie e metterli di fronte alle loro contraddizioni (verissimo!).
Il problema di molti è il convincersi dell’esistenza di una verità indiscussa e indiscutibile in un numero molto ampio di questioni – la qual cosa si è peraltro estesa dal campo scientifico a quello sociale – senza ammettere alcun tipo di contraddittorio. Purtroppo o per fortuna, in una società democratica questo è un atteggiamento perdente. Chiudersi nella torre d’avorio, facendo trasmissioni come piacerebbero a quei critici, significa non attirare alcuno degli spettatori convinti di queste cose, e spingerli verso le trasmissioni “a tesi” come quelle di Paragone. Una tesi buona, invece, se esiste, può emergere da un dialogo ben strutturato. Poi, certo, esistono quelli che NON BISOGNAVA PERMETTERE A RED RONNIE di esprimersi. E che probabilmente pensavano la stessa cosa degli scienziati contro il referendum sul nucleare, o degli economisti contro il referendum che si è amato definire “dell’acqua pubblica”. Ex malo bonum: se a questi indignati venisse in mente di far partire da questo un movimento per privatizzare la RAI, ditemi dove firmare.
Ma il punto è che a molti non è che stia a cuore la scienza, o il benessere generale, o che altro: gli stanno solo sul cazzo quelli che – ragionevolmente o meno – hanno opinioni diverse dalle proprie, e quindi devono tacere. Peggio ancora se tutto ciò succede in uno spazio esterno al giornalismo pettinato e progressista, come da Porro. È uno dei sintomi di una società che ha rinunciato a parlare oltre le barriere, o a mettere in discussione le proprie certezze, per chiudersi in piccoli recinti di opinioni rassicuranti e coerenti con la propria visione del mondo. Per questo non si può non difenderlo, a prescindere dai suoi limiti e dai suoi demeriti.
Forza Porro.
Quella sulle unioni civili è una legge molto timida, nata da un compromesso con forze conservatrici e illiberali. Sinceramente ci sarebbe poco da festeggiare, è poco più di un atto dovuto.
Sennonché almeno di una cosa ci si può rallegrare. Ed è l’effetto che l’approvazione della legge sta avendo su certi settori della società. Le reazioni dei social network sono fantastiche, tra cattolici tradizionalisti impauriti o che inveiscono contro la distruzione della famiglia tradizionale, fascisti allo sbaraglio che girano video imbarazzanti urlando che l’omosessualità “non sarà mai legge”, gente che fino a tre giorni fa si incazzava perché ci sono cose molto più importanti e oggi invece propone il referendum contro le unioni civili.
Insomma, la varia umanità che questa legge ha scoperchiato, mettendo il dito nella piaga di settori di società retrivi e totalmente slegati dalla realtà, che godono solo nel negare ad altri diritti che loro hanno.
Bene, se la legge serve, oltre ad estendere diritti, anche a trollare queste persone e a mettere in crisi le loro certezze, di questo si ci possiamo rallegrare. La legge non dà pari diritti ma sanziona la normalità delle relazioni omosessuali, che diventano meritevoli di tutela di fronte al legislatore. Ed è questa sanzione della normalità a dare fastidio a questa gente. Quello di cui non si capacitano.
Purtroppo per loro, però, ormai è così e non si torna indietro. Loro e soprattutto i loro figli vivranno in un mondo in cui i froci saranno sempre più gente come tutti gli altri, anche di fronte alla legge. E non ci possono far nulla. Per fortuna nostra e soprattutto dei nostri e dei loro figli.
Santé.
C’è un’accesa discussione in corso, in questi giorni, su una parte di Facebook che gli utenti italiani in buona parte non conoscono: il box delle trending news. Stando alle dichiarazioni di alcuni ex dipendenti dell’azienda, la sezione delle notizie più in vista (che non è presente nella versione italiana del social network) sarebbe non solo controllata da una redazione invece che puramente automatica, ma anche intenzionalmente guidata eliminando le notizie di area conservative.
Possiamo sicuramente dare alla vicenda il tempo di svolgersi pienamente, e aspettare che si capisca di preciso cosa sia vero e cosa no, prima di entrare nel merito. Ma c’è un’altro tipo di riflessione che andrebbe fatta, e andrebbe fatta a lato di questa storia.
Da quando la notizia è venuta fuori, la si è letta in molti posti. Su Gizmodo, dove è nata, sul Guardian, su varie testate italiane e straniere e su diversi blog. Sapete dove l’ho vista poco, di recente? Su Facebook.
Non mi interessa, qui, affrontare il problema di petto. Nel merito, mi limiterei a dire che è del tutto normale, e anzi positivo che ci sia una mano umana ad aiutare l’algoritmo, consentendo di mettere una pezza a difetti, bug e imperfezioni inevitabili. La mia impressione è che concentrandosi sulle colpe degli editor cattivi o sull’ipocrisia degli utenti liberal (specie a faccenda non ancora chiarita) non si arrivi in nessun posto utile, e si trascuri un problema più grave.
Domanda: quante delle notizie che leggete ogni giorno vi raggiungono via Facebook? Quante dichiarazioni e opinioni di politici, giornalisti, amici, vi passano sotto gli occhi solo tramite il feed di Facebook? E chi decide quali vi raggiungono e quali no?
A me sembra che il punto chiave sia qui.
Non sono certo il primo a sottolinearlo, ma Facebook è sempre di più e per sempre più persone un walled garden. Uno spazio all’interno del quale gli utenti sono perfettamente a loro agio, interagiscono tra loro, si muovono, ma il tutto avviene entro limiti invalicabili e secondo le regole del sistema. Per un gran numero di utenti web, oggigiorno, Facebook di fatto è Internet. E come biasimarli? Gli amici sono tutti a portata di mano, le notizie e gli aggiornamenti arrivano da te senza che tu debba sforzarti di andarle a cercare. Il giardino (sarebbe più corretto chiamarlo recinto) è un’oasi di comodità. Solo che il web è fuori.
Gli status degli amici, le news che raggiungono ciascun utente Facebook, sono premasticati e proposti secondo regole che sono allo stesso tempo ben definite, segrete, e soprattutto non nelle disposizioni dell’utente. La discussione sulle trending news, al momento, tende a prendere una piega del tipo algoritmo sì o algoritmo no, di solito suggerendo che se ci fosse un sistema automatico il problema della neutralità non si porrebbe, ma credo che bisognerebbe chiarire a tutti che questa distinzione non ha nessun senso.
L’algoritmo non è una divinità calata dal cielo con un senso innato di giustizia rivelata: è uno strumento usato da alcune persone. Il problema del boxino non è se l’algoritmo che lo controlla è imparziale o se le persone che lo controllano sono corrette o se Facebook doveva spiegare meglio come lo controlla, il problema è che ci siamo messi spontaneamente in una situazione in cui qualcuno controlla privatamente e per suo tornaconto una fetta enorme delle informazioni che raggiungono un’enorme quantità di persone.
Quello con la A maiuscola. L’Algoritmo non è un software, non è una persona, è un’entità astratta di cui sappiamo poco, ma alla quale affidiamo le nostre informazioni e i nostri interessi. Non farebbe nessuna differenza, ai fini del ragionamento, se a decidere quali status e quali link mostrare a ciascun utente fosse il signor Zuckerberg in persona da uno scantinato.
Naturalmente l’utente ha un ruolo. I like, i click, le impression influiscono sull’Algoritmo. Ma è un’influenza declinata al passivo, che si limita a un “questo sì” o un “questo no”, e che se anche fosse determinante finirebbe solo per creare un recinto ancora più stretto, in cui vedere solo quello che si vuole vedere.
Alle aziende dietro ai grandi network (Facebook, Twitter, Google) abbiamo dato un compito fondamentale, quello di selezione delle informazioni (e non parliamo neppure della questione privacy) , in cambio della comodità; e loro se ne sono prese carico con immenso piacere.
Quindi niente, questa è la parte più interessante: non c’è una vera soluzione. Potrei invitarvi a non restare chiusi nel recinto di Facebook, a uscire, a cercare le notizie sui siti di informazione, sui blog, a diversificare tutto il diversificabile, ma sarebbe un consiglio per pochi seguito da pochi. Non siamo nel 2006, e il dato di fatto è che la massa degli utenti di Facebook è troppo grande per qualunque cambiamento immediato rilevante.
Dobbiamo per ora accettare il fatto che milioni di persone, ogni giorno, si collegano volontariamente col mondo esterno attraverso la finestra di Facebook; e che anche se Facebook è un’entità privata che può, teoricamente, decidere in maniera del tutto arbitraria cosa mostrare a chi e perché, questa sua scelta editoriale influisce pesantemente su una fetta importante della società.
Facebook, se siamo fortunati, non durerà per sempre, ma la direzione che ha preso lo sviluppo di Internet porta inevitabilmente a questo tipo di situazioni. Una manciata di grandi network gestisce (e gestirà) il flusso delle informazioni nei propri recinti, mentre un gran numero di piccoli network e piccole app si contende (e contenderà) le briciole, le attività laterali e le poche chance di entrare nella serie A. Ai margini di tutto questo resta l’underground: siti indipendenti, blog, il deep web e tutto il mondo non HTTP. In quest’ultimo confuso spazio rimarrà la possibilità di scegliersi i contenuti e di essere gli editori di se stessi. Se vi sembra uno scenario distopico, vi capisco ma vi sbagliate: ci siamo già arrivati.
Si diceva altrove che Raimo è uno al quale, nel mondo della cultura, “tutti devono almeno uno o due favori”. E scrive per una rivista letta da gente che, a torto o a ragione, si sente parte di un’Italia migliore, eletta, più sensibile, raffinata e cosmopolita. Questa cosa sembra in un certo senso informare la sua visione del mondo, se è vero che la mera applicazione della legge a persone che si trovano nel circolo delle sue frequentazioni lo porta a impugnare la penna al meglio della sua forza espressiva.
Il suo ormai popolarissimo articolo su Internazionale a proposito di Roma è però un’accozzaglia confusionaria di malcontenti, molto diffusi e veritieri, per carità, sull’innegabile degrado in cui versa la capitale. Ne viene fuori una fotografia sconfortante della città largamente condivisibile, ma anche un minestrone in cui si mischiano con disinvoltura temi disparati come il sostegno pubblico alla cultura e i problemi dell’urbanistica, il tema delle occupazioni e quello delle regole bizantine per gli esercizi commerciali, senza un nesso che non siano i gusti di Raimo in fatto di vita hipster notturna. Il punto di caduta è che, alla fine della sua giaculatoria, neanche l’autore riesce a individuare alcuna responsabilità precisa e finisce per inveire alla cieca contro chi preclude gli accessi ai suoi personali punti di riferimento culturali. Christian Raimo non è un politico, non è sua responsabilità sezionare i problemi e individuare le soluzioni, ma il rischio è che – in mancanza di analisi e ricostruzioni – questo filone mainstream del lamento generico su Roma non faccia che ridurre la cosa a un genere letterario per infinite serie di editoriali oppure di interviste ad orologeria per far fuori il sindaco scomodo di turno.
Vediamo allora di mettere ordine tra gli spunti del buon Raimo:
☛ Il fenomeno della desertificazione del centro storico è innegabile: un bel video dei Ritals ci ricorda che quello che chiamiamo “centro” a Roma è pari a 5 volte il centro storico di Parigi e contiene più siti archeologici e di interesse artistico di interi Stati. Non si tratta però né di un problema recente né di una esternalità del capitalismo interiorizzato a causa di AirBnB. Già nei primi anni ’90, nella riedizione del libro Roma moderna, l’urbanista Insolera annotava:
Nei venti anni tra il 1951 e il 1971 il centro storico di Roma ha visto più che dimezzata la sua popolazione; inoltre anche una gran parte di quella ancora residente è cambiata con la trasformazione di abitazioni povere e medie in residenze di prestigio. In totale, si può ritenere che circa i quattro quinti dei residenti del centro storico siano emigrati in periferia. Dopo il ’70 il fenomeno si è esteso alla cerchia dei quartieri fuori le mura a macchia d’olio: come questi quartieri si erano formati dal 1870 al 1960 per alloggiare la popolazione della città in crescita, adesso si trasformano in uffici, che ugualmente si diffondono a macchia d’olio.
Insomma, la popolazione residente a partire dagli anni ’50 viene spinta fuori dalla cinta storica e addirittura ai confini del GRA; la vita civile si riorganizza nei quartieri. La crisi e il sistema di mobilità dissestato fanno in modo che ci si muova sempre meno e sempre meno verso il centro. Tutto vero, colpa di piani regolatori molto antichi e mai rivisti e di un trasporto pubblico insufficiente. Non però di Airbnb e di chi (chi, poi?) secondo Raimo avrebbe convinto i giovani a rinunciare al proprio estro.
☛ Il fenomeno dell’omologazione degli esercizi commerciali e della scadente offerta gastronomica per turisti non è invece una esclusiva di Roma, e farei fatica a correlarlo al degrado urbano dal momento che la presenza né delle patatine olandesi né le officine della ‘nduja risulta abbiamo eroso il tessuto creativo ed estetico di Milano, per dire, o di Madrid. Sono poi due tendenze che non c’entrano nulla: da una parte catene di fast food etnico, dall’altra tentativi di singoli al massimo ingenui di fare impresa in base alla moda slow food del momento, valorizzando i prodotti del proprio territorio. Insomma, con chi ce l’ha Raimo? È mai andato al Pallaro? Che fare, inibire alcuni ristoranti e favorirne altri? E soprattutto, che c’entra questo con il degrado urbano?
☛ Il tema dei fondi – ovviamente pubblici – alla cultura è sempre caldissimo a Roma, sarà che la città pullula di artisti. Ora, quale sia il numero di artisti necessario a garantire uno standard accettabile per Raimo e quindi quale debba essere la proporzione con la gente che si accontenta di lavori normali, anche un po’ brutti, e che paghi le tasse per finanziare la gente che fa l’artista non ci è dato saperlo. Sappiamo che al momento non c’è trippa per gli artisti, e sappiamo anche che se tutti fossimo artisti sarebbe anche peggio, perché i fondi li dovrebbe cacciare per intero Raimo. Il sistema dei teatri di prosa romani ha goduto per anni di un sistema di finanziamento a preventivo, al contrario di quello milanese che andava a coprire a consuntivo in base ai posti riempiti. Servirebbero delle metriche per capire che impatto abbiano avuto i due modelli, però magari una logica di produzione artistica meno ombelicale riuscirebbe ad attrarre il pubblico pagante che al momento sembra mancare.
☛ La questione spazi occupati è complessa, in alcuni casi si interseca con quella degli operatori culturali. La questione andrebbe affrontata caso per caso, per esempio nel caso del teatro Valle non si trattò sicuramente di una restituzione ai cittadini ma di una appropriazione arbitraria, vero è che dopo lo sgombero non se ne è fatto nulla. In generale, sui centri sociali, mi sento di condividere una riflessione ospitata di recente su questo stesso blog dal titolo eloquente: Non basta okkupare.
☛ Sugli esercizi commerciali chiusi a piacere dalle forza dell’ordine con ordinanze qualsiasi, prese dal ventennio o emesse ad hoc dalla stirpe dei “sindaci sceriffi”, sarebbe forse da affrontare il tema più generale di una regolamentazione così bizantina che è praticamente impossibile osservarla completamente. Si va dall’obbligo di un bagno per bar senza neanche tavolini fino allo spessore minimo del bancone. Fare impresa così, anche non ci fosse la crisi, anche non ci fosse la concorrenza dei franchising, è un incubo per tutti, non solo per chi fa cultura. Il Dal Verme è un esercizio commerciale – come tutti – sottoposto a queste regole. Invece, il punto centrale di Raimo è lo stesso con il quale uno di quelli del Dal Verme lamenta l’ingiustizia subita. Ne riporto un estratto, ma il resto della presuntuosetta chiacchierata è qui:
Il bar, specialmente quello del Verme, (anche qui chiunque l’abbia frequentato può confermare) offre nel nostro caso qualcosa di CULTURALE, perché Andrea, Francesco, Mario, i ragazzi che si occupano di star dietro al bar, sono appassionati di mixology, di birre, di vini…Insomma, ci piace bere bene e quindi abbiamo una scelta, abbiamo prodotti che vengono da microbirrifici, che noi promuoviamo culturalmente, cioè è parte del lavoro culturale anche far conoscere quei prodotti al più possibile numero di persone, di soci. Fortunatamente non esiste solo la birra Peroni: perché dobbiamo berci per forza la merda in un’associazione culturale? Quando sono diventata socia ci siamo incontrati anche su quella scelta lì, avevano dei vini da paura perché spingevano delle realtà particolari, ti spiegavano tutti i dettagli, di come si arrivava a quel vino…
Per fortuna l’intervistatore non ha chiesto di specificare, altrimenti avremmo avuto altre dieci righe di elogio del vino biodinamico, con annessa spiegazione di come il cornoletame renda il vino più fruttato, robe così. Insomma, il senso è che il loro bar è mes que un bar, ovviamente: una cosa diversa, oltre, meritevole di attenzioni particolari. Abbiamo sempre trovato adorabile questa sorta di presunzione aristocratica, diffusa tra chi si considera molto alternativo e molto progressista, e che per qualche ragione ritiene di avere dei diritti speciali. E magari li ha pure, perchè se il Valle, per dirne uno, fosse stato occupato da quattro scappati di casa, la rivoluzione sarebbe durata il tempo di una notte.
Insomma, il problema delle regole per la movida e la ristorazione, quello della politica culturale e turistica sono certamente più complessi e richiedono una riflessione più grande della mera applicazione di leggi peraltro ingiuste. Ma pensare che la via d’uscita sia la legittimazione dell’eccezione, il disordinato accesso a fondi e risorse comuni degli amici di Raimo con la contestuale persecuzione delle catene o delle iniziative di sharing economy che gli stanno antipatiche, è molto, troppo poco. Specialmente per chi mostra di ritenersi migliore, più bravo, più eletto dei rivenditori di patatine olandesi.
On the Iron Islands
In questa stramaledettissima società del baccano, sembra che si senta il bisogno di aggiungere rumore al rumore, trambusto al frastuono, cacofonia al suono.
Probabilmente annichilita dall’assedio costante di cachinni tecnologici, logorree social e scoregge musicali, un certo tipo di umanità tenta di rivalersi darwinamente sulla specie più debole, ovvero su tutti coloro che vorrebbero invece ancora godersi il piacere antico del momento auditivo. Quelli che parlano ai concerti sono l’esempio lampante della mortificazione dell’ascolto a cui siamo sottoposti/ci sottoponiamo quotidianamente.
Lo stronzo (o lo stronza) pare possedere il dono dell’onnipresenza: a volte si trova di fronte a te, in altre occasioni è alle tue spalle, molto spesso ti siede a fianco, ma è sempre, sempre, in compagnia di un accompagnatore anonimo, vera e propria spalla tragicomica, il cui unico ruolo è fornire un pubblico, un’audience, al monologhista disturbatore. Monologhista che, in accordo con la tradizione Shakespeariana, è un grado di andare avanti a parlare per ore e ore, senza interruzioni o pause di alcun tipo, apparentemente immune dal bisogno di tirare fiato o reidratarsi – più resistente di un cammello del Gobi. La presenza di un cantante o di una band sul palco non lo turba: basta alzare un po’ la voce quando la musica sale di volume, o urlare durante gli applausi. L’oggetto di tali orazioni è, nelle maggior parte dei casi, velleitario: si passa dal vestito nuovo comprato in saldo all’idraulico che non è riuscito a sostituire la guarnizione, senza dimenticare ovviamente quella troia della Paola che è una settimana che non risponde ai miei messaggi.
Come tutte le forme di vita parassitarie, il disturbatore si adatta a qualsiasi genere musicale: sebbene il suo habitat preferito sia il concerto jazz (musica bassa, birre sul tavolino e brani di cui non frega un cazzo a nessuno), si adatta benissimo anche alla classica (d’altronde parlare tra un movimento e l’altro commentare è praticamente un obbligo), al pop (anche se in questo caso viene spesso sostituto da un’altra, esecrabile figura: quello che canta tutte le canzoni ad alta voce), e al rock (a fine esibizione ha in genere la gola a pezzi dopo aver tentato inutilmente di sovrastare riffs satanici e percussioni apocalittiche). Cercare di interromperli, anche in maniera cortese, è inutile: ti guarderanno in maniera offesa, quasi scandalizzata, non chiederanno scusa e aspetteranno circa mezzo minuto per poi riprendere la loro interessantissima tergiversazione sull’ultima offerta della Vodafone con chiamate illimitate.
Ma dietro questa arroganza di superficie si nasconde, temo, un’insicurezza di fondo – mista a una certa dose di malinconico fatalismo. È forse la consapevolezza più o meno inconscia di aver perso non solo la capacità di ascoltare, ma persino il beneficio di lasciarsi trasportare dal potere del suono armonico. Fratello gemello della musica, il silenzio è un elemento imprescindibile dell’ascolto attivo, quello che ci permette di andare in profondità a livello intellettuale ed emotivo e di godere appieno dell’esperienza attuale – cioè limitata nello spazio e nel tempo – che stiamo vivendo. Quelli che parlano durante i concerti parlano innanzitutto sopra se stessi, nella vana illusione che il suo della voce possa davvero riempire i buchi che hanno nell’animo.
Senza contare la rottura di coglioni per chi sta loro attorno.
Ma davvero usare piuttosto che nel senso di oppure è un indizio dell’Apocalisse imminente? Me lo sono chiesto dopo aver riletto questo articolo del 2014 de Linkiesta, ripostato qualche giorno fa sulla pagina Facebook del magazine online, con tanto di didascalia che dice: “Una vera e propria battaglia culturale”. Nell’articolo si parla (non senza ironia, mi auguro) dell’uso improprio del piuttosto che come di “una sciagura” e “una iattura” e si cita questo estratto dell’opinione illustre dell’Accademia della Crusca:
Non c’è bisogno di essere dei linguisti per rendersi conto dell’inammissibilità nell’uso dell’italiano d’un piuttosto che in sostituzione della disgiuntiva o. Intendiamoci: se quest’ennesima novità lessicale è da respingere fermamente non è soltanto perché essa è in contrasto con la tradizione grammaticale della nostra lingua e con la storia stessa del sintagma (a partire dalle premesse etimologiche); la ragione più seria sta nel fatto che un piuttosto che abusivamente equiparato a o può creare ambiguità sostanziali nella comunicazione, può insomma compromettere la funzione fondamentale del linguaggio.
Una frase di questo passaggio è certamente vera: in effetti, non c’è bisogno di essere dei linguisti per pensarla come la Crusca o come Linkiesta. Possibile, tuttavia, che essere dei linguisti aiuti a evitare di impegolarsi in battaglie inutili e concettualmente sbagliate come questa.
Una piccola premessa di costume. C’è tutto un curioso fiorire di pagine Facebook, iniziative artistiche e dotti libretti dedicati agli strafalcioni dell’italiano di tutti i giorni. Pare comunque che nessuno abbia dubbi: tra tutti gli errori di grammatica e ortografia, il piuttosto che usato con valore disgiuntivo è diventato il “simbolo della degenerazione linguistica“. All’origine di questa ondata di indignazione c’è probabilmente quella che Wikipedia descrive come “una certa venatura di snobismo” e “aura di prestigio” percepita in chi utilizza impropriamente questa espressione. Anche la Crusca, congetturando sull’origine dell’errore, parla di una “moda” o un “malvezzo” di origine settentrionale, e precisamente milanese, verosimilmente incistatasi nell’italiano parlato per imitazione “ad opera di conduttori settentrionali”. A sentire queste fonti, ci troveremmo di fronte a una specie di complotto linguistico ordito da gruppi organizzati di fighèt meneghini.
Questa rappresentazione è tanto più fastidiosa in quanto contribuisce a diffondere un’immagine pubblica dei linguisti di professione come di sommi sacerdoti della lingua, col ditino perennemente alzato e che a correnti alterne si inteneriscono per un petaloso o si infiammano d’indignazione per un piuttosto che usato male. Per fortuna, accanto alla pedante battaglia purista, ci sono linguisti che, facendo il loro mestiere, provano a spiegare il fenomeno e a interrogarsi seriamente sulla sua origine utilizzando gli strumenti della semantica storica e dei processi di grammaticalizzazione. In un articolo apparso nel 2015 sulla rivista Cuadernos de Filología Italiana, le linguiste Caterina Mauri (Università di Bologna) e Anna Giacalone Ramat (Università di Pavia) propongono alcune ipotesi piuttosto convincenti e che vale la pena riassumere, con qualche semplificazione.
Per prima cosa, sulla base di dati raccolti in grandi banche dati dell’italiano scritto e parlato, le due autrici sottolineano come l’uso del piuttosto che con valore disgiuntivo sia in realtà ampiamente diffuso sul territorio nazionale: più che una moda passeggera o un malvezzo milanese, l’osservazione empirica sull’arco degli ultimi vent’anni suggerisce al contrario “le sembianze di un mutamento linguistico ormai avvenuto” (55). Che non si tratti poi semplicemente di una “discutibile voga di origine settentrionale”, come scrive ancora la Crusca, è testimoniato dal fatto che il tipo di processo linguistico osservato nel passaggio ai nuovi usi del piuttosto che trova dei chiari paralleli nello sviluppo di locuzioni analoghe in lingue diversissime dall’italiano, quali il Giapponese e il Koasati (una lingua nativa americana). D’accordo che la moda milanese è famosa in tutto il mondo, ma è improbabile che i nativi americani del Texas abbiano subito fino a questo punto il fascino del dialetto lombardo! Una terza notazione interessante riguarda l’etimologia del piuttosto che: l’originario “più tosto che” aveva un’accezione temporale equivalente a “più rapidamente, prima di” che gradualmente si è persa per fare posto, già a partire dal XV secolo, al significato di comparativo di preferenza (“Preferiscono mangiare piuttosto che essere mangiati”). Se nel tardo medioevo ci fossero stati i social e l’Accademia della Crusca, possiamo star sicuri che avremmo assistito a una levata di scudi contro “codesto heretico impiego” di più tosto che in funzione di comparativo.
Il parere della Crusca rafforza un’altra leggenda ben radicata, e cioè che l’uso del piuttosto che in funzione di disgiunzione sarebbe da rifiutare perché avrebbe come allarmante conseguenza nientemeno che quella di “compromettere la funzione fondamentale del linguaggio”! Stando sempre a Wikipedia, il glottoteta Diego Marani sul Sole24Ore si sarebbe spinto fino al punto di suggerire che il piuttosto che disgiuntivo sarebbe “dal punto di vista semiotico, un’espressione del tutto priva di contenuti comunicativi, classificabili al pari del «mi consenta» berlusconiano tra gli strumenti inutili del lessico di Porta a porta: mere formule utili a «tenere il microfono», ma con uno spessore semantico equivalente a quello di un grugnito”.
Anche su questo punto, il paper di Mauri e Giacalone Ramat ci viene in soccorso, dimostrando che questa presunta vacuità semantica e pericolosa ambiguità del piuttosto che disgiuntivo è in realtà inesistente. Al contrario, l’uso del piuttosto che nei cosiddetti contesti di “libera scelta” (dove cioè non è implicata o presupposta una preferenza tra gli elementi concordati da questa locuzione complessa) svolge – secondo le autrici – un ruolo semantico specifico, non assimilabile a quello della disgiunzione semplice (“o”, “oppure”). Che le cose stanno così è inoltre suggerito dal fatto che, laddove svolge funzione di disgiunzione, piuttosto che ha proprietà “distribuzionali” diverse da quelle dei semplici connettivi disgiuntivi: in altre parole, l’uso del piuttosto che non è accettabile in alcuni contesti nei quali la semplice disgiunzione “o” o “oppure” sarebbe invece lecita. Un esempio sono le domande alternative. Si può notare, in effetti, che una frase come
(1) Stasera andiamo a mangiare la pizza o il pesce?
pronunciata con la giusta intonazione, può indicare una richiesta all’interlocutore di indicare una preferenza tra le due alternative proposte (pizza o pesce). Al contrario, una frase come
(2) Stasera andiamo a mangiare la pizza piuttosto che il pesce?
non può essere interpretata in questo senso. Se pronunciata con la giusta intonazione finale di tipo sospensivo, questa domanda si può parafrasare solamente come: “stasera andiamo a mangiare qualcosa?, ad esempio pizza o pesce, etc, …?”.
Questa parafrasi rivela in effetti quella che secondo Mauri e Giacalone Ramat è la funzione semantica specifica del piuttosto che disgiuntivo, ovvero quella di una disgiunzione con valore esemplificativo. In parole povere, l’uso del piuttosto che servirebbe a indicare una lista aperta di alternative non esaustive e non specifiche, sulla base della menzione di alcuni esemplari noti al parlante. Attraverso l’uso di questa locuzione, l’interlocutore viene così invitato a elaborare mentalmente una categoria sovraordinata cosiddetta estemporanea o ad hoc, ovvero una classe di oggetti per la quale non esiste nel dizionario un nome convenzionale (ad esempio “uccelli” o “sedie”) ma la cui utilità comunicativa è limitata allo specifico contesto della conversazione (ad esempio: “cose che potremmo avere voglia di mangiare stasera”).
A conferma di questa analisi, le autrici segnalano che, nei corpus da loro analizzati, è attestato un ulteriore uso, più recente, del piuttosto che, a sua volta derivato dalla nuova accezione disgiuntivo-esemplificativa. In questo secondo caso, il piuttosto che compare a fine frase, o comunque prima di una forte pausa, ed ha una funzione più o meno equivalente a quella di espressioni come “etc.” o “e cose così”, come nella frase che segue tratta da un forum di discussione:
(3) Spesso c’è il problema di dire “dove si va”, magari per un giro pomeridiano, piuttosto che.
Anche questa nuova transizione semantica, dall’uso di disgiunzione esplicativa al significato di general extender (“etc…”) non sorprende se si guarda all’evoluzione di locuzioni analoghe in altre lingue, spiegano le autrici.
Questa storia forse un po’ noiosa ha una morale. Il linguaggio è uno strumento che usiamo per uno scopo, comunicare, e che di continuo noi, parlanti di una lingua naturale, modifichiamo e affiniamo con grande plasticità per adattarlo all’esigenza di comunicare cose sempre nuove. Le regole linguistiche di oggi sono nient’altro che il frutto di errori passati. Estendendo i limiti della grammatica e del lessico al di fuori dei confini fissati dallo standard dei libri di scuola, chi parla una lingua non fa altro che provare a colmare un vuoto che esiste tra ciò che vorrebbe comunicare (possibilmente con il minor sforzo possibile) e ciò che, in un certo momento storico, è codificato nelle parole che usiamo. A volte, chi “parla male” e “scrive male” sta cercando per noi le parole giuste, quelle che useremo tutti quanti domani. Forse bisognerebbe ricordarselo, prima di avventurarsi in “battaglie culturali” senza cultura.
Sul finire del 1978, a poca distanza dalla salita al soglio pontificio di Karl Wojtyła, la rivista satirica il «Male» decise di prendere di mira il neoeletto papa polacco con una serie di attività dentro e fuori la pagina. Tra queste, lo storico staff editoriale composto (tra altri) da Pino Zac, Vincino, Vauro e Andrea Pazienza, decise di eleggere un proprio antipapa, Vojtilo o Giovanni Paolo III (interpretato dal disegnatore Roberto Perini), poi spedito sul balcone della redazione a difendere urbi et orbi la rivista, sottoposta a continui attacchi sia da destra che da sinistra a causa dei suoi “eccessi” derisori.
Probabilmente le autorità non la presero molto bene, tant’è dopo poche ore si presentò sul luogo la polizia per arrestare il direttore Vincenzo Sparagna con la ridicolissima accusa di “vilipendio di capo di Stato estero” – Perini invece se la scampò per un pelo.
La risposta del Male non tardò ad arrivare, e venne pubblicata sul numero successivo. La trovate qui in basso, e penso che si possa applicare ancora oggi al caso di Jan Böehmermann, comico tedesco a rischio condanna penale per una poesia satirica sul premier turco Erdogan, letta nel corso di un programma televisivo trasmesso in Germania qualche settimana fa. L’accusa alla base del procedimento giudiziario in corso, avvallato dal governo di Angela Merkel, è sempre la stessa: offesa a un capo di Stato straniero.
Ieri come oggi, la libertà si conquista (anche) a colpi di satira.
(L’aneddoto e la pagina sono tratti da: Vincino, Il Male. 1978-1982. I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli 2007).
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Dear international amici,
You have visto che razza di shit succed when you permit una french person di cook la carbonara. And infatt everyone in Italy are incazzati because this is one true schifezza. But poi succed che pure gli English si mettono a give lessons to the french on the carbonara and the pezza is worse of the hole!
The Guardian dice the french: stupid french look questa is the true carbonara. And what they do? They put aglio in the carbonara! But the soul of the bad-dead vostra! Aglio non goes in carbonara!
Allor, visto che nessun understand one fava di how si fa the carbonara we dice you.
Prim, tu prend le eggs and is meglio if they are not in the fridge perché you want the eggs at ambient temperatur.
Second, tu sbatt the eggs con half Parmigiano and half pecorino romano. Not usare all the albumi: if you use 4 eggs use only one albume. No mozzarella, no grana padano, no panna, no cheesecake: parmigiano and pecorino romano, cazzo! Altriment non è carbonara.
Devi sbatter very well and pure se sbattere well è one sbattimento lo fai, altriment vai at the restaurant che è better.
Allor, in the frattemp, tu put una grand pentola a bollire.
Poi tu metti the guanciale a frigger in one padella: the guanciale is the right carne for the carbonara because it has much grasso. And infatt se usi la pancetta or persino the prosciutto crudo – peggio me feel! – there is no abbstanz grasso e the carbonara fa schifo at the dick!
Stai very attento now: the guanciale must cuocere fino a che the grasso is trasparent and it comincia to divent brown. No more and no less: guanciale poco cooked tastes like petrolio and guanciale troppo cooked lo give to eat at your sister.
When the water bolle – and only when the water bolle! – you put the pasta and you cook the pasta al dente: al dente understand? No che se pasta cooks in 8 minutes you put the pasta and then go to make the cazzi yours for half an hour. No!
When the pasta is ready tu prend la pasta e la mix con the eggs. Devi mix very well perché sennò is frittata and frittata is a second dish or al massimo piatto unico but is not a first dish come carbonara.
Poi tu prend the guanciale and put on the pasta, prend pure un poco del grasso from the padella but not tutto altriment the piatto si slega. Vabbè but what you want understand!
Poi tu mett tanto pepper sopra the pasta and the dish is ready. Good appetito!
And mi raccomando: bevi cappuccino mentre you eat the carbonara!
Santé
«Non c’è voluto certo un grande carattere/per il nostro rifiuto dissenso e opposizione/abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio/ma in fin dei conti è stata una questione di gusto/Sì di gusto» *
Così si pronunciava nel 1981 Zbigniew Herbert, poeta dissidente polacco in esilio a Parigi, sulla necessità di combattere la dittatura comunista al potere nella sua terra d’origine. L’etica per Herbert, divenuto eroe nazionale una volta rientrato in patria dopo la caduta del Muro, era soprattutto una questione di estetica, una resistenza del bello sulle brutture (morali, ideologiche e propagandistiche) imposte dallo squallore di regime.
E la Polonia post-socialista sembrò apprendere quasi subito la lezione impartita da uno dei poeti-simbolo della rivolta, mettendo in atto, sin dagli esordi della rinnovata democrazia, una forma di resistenza artistica contro quel appariva fra i più pesanti lasciti di cinquant’anni di dominazione del brutto. Poco dopo la caduta del Muro, i numerosissimi quartieri-operai presenti in tutte le maggiori città del paese, dominati da osceni palazzoni grigi dall’aspetto quasi orwelliano, divennero il principale campo di battaglia per la rinascita estetica della nazione. Fu innanzitutto Łódź, città prevalentemente industriale, capitale del cinema polacco e luogo di formazione artistica, fra altri, di Roman Polanski e Krzysztof Kieślowski, a vedere i suoi muri decorarsi di quelle forme urbane emerse circa un trentennio prima nei bassifondi di New York: enormi e coloratissimi murales cominciarono ad apparire sulle facciate delle architetture sovietiche, mentre piccoli gruppi di graffitari anonimi lanciavano dall’alto dei tetti la loro sfida di bellezza all’eredità del recentissimo passato comunista.
In poco tempo, gli altri centri seguirono l’esempio di Łódź. Le aree più povere di Varsavia, Danzica, Cracovia, Gdynia, Bydgoszsc si popolarono di animali fantastici, allegorie politiche, figure umanoidi e rappresentazioni surrealiste a guardia dello skyline cittadino. Un processo che continua tutt’oggi, con una ricezione sempre più positiva da parte di un pubblico inizialmente scettico e ora travolto da questa piccola rivoluzione del gusto – i murales da forma di vandalismo a bene comune di un popolo in rinascita. Negli ultimi tre lustri, la street art si è imposta in Polonia come avanguardia di una nazione alla ricerca di una propria estetica redenta, grazie a una nuova generazione di giovani artisti votati al rinnovamento del panorama urbano: Chazme, M-City, il duo Etam Cru, Sepe, Natalia Rak, ecc. Questa frizzante atmosfera culturale è riuscita ad attirare anche grandi nomi internazionali, arricchendo ulteriormente il patrimonio artistico del paese con i lavori di Borondo, Blu, Remed, Ericailcane, Aryz, e dando dunque vita a un’ideale caccia al tesoro su larga scala a beneficio del turismo interno e straniero: il viaggiatore che voglia visitare una qualsiasi città polacca può spendere gran parte del suo tempo girovagando per le periferie e i quartieri popolari, alla ricerca di uno stile conosciuto – o di un tratto innovativo – sul muro scrostato di un vecchio edificio in rovina.
Una storia apparentemente a lieto fine, se non fosse che la minaccia del brutto è sempre in agguato e rappresenta per la Polonia, ancora una volta, un rischio concreto. Dopo le elezioni dell’ottobre 2015, che hanno visto la vittoria del partito cattolico e ultra-nazionalista PiS (acronimo di Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e Giustizia), il paese sembra infatti destinato a ricadere nelle maglie dell’oscurantismo ideologico. Oltre all’imposizione di tasse più pesanti sulle imprese straniere, lo smantellamento dell’attuale Costituzione, il divieto totale di aborto e l’occupazione sistematica di tutti i vertici del sistema mediatico statale con figure vicine al partito, il governo del primo ministro Beata Szydło si propone di indirizzare istituzioni e produzioni culturali verso la promozione del cosiddetto “Orgoglio polacco”. Orgoglio che si tradurrebbe nella celebrazione delle grandi figure nazionali (Copernico, Chopin, Karol Wojtyła e Marie Curie Skłodowska), a discapito di una qualsiasi analisi o interpretazione critica di una realtà storica ancora piuttosto controversa. Come scrive Alex Urso sulla rivista Artribune a proposito dei recenti sviluppi politici: «nonostante le pulsioni artistiche positive del momento e le potenzialità̀ individuali dei singoli artisti di ultima generazione, i limiti dell’arte polacca sono semmai da rintracciare nell’apparato istituzionale […]. Speculatori e affaristi dell’ultima ora, affiancati da una classe politica arrivista e di stampo populista, stanno lentamente rivelando le magagne di un sistema facilmente corruttibile, in cui interessi privati e pubblici si mischiano con insolenza, in cui il ruolo dei media la fa da padrone e le aspirazioni autoritaristiche dei rappresentanti sono all’ordine del giorno.» **
Una terra dunque al bivio tra una riappropriazione ancora lunga e faticosa del proprio patrimonio artistico e, soprattutto, urbano – il profilo dei maggiori centri della Polonia rimane grandemente deturpato dalla scelleratezza architettonica socialista – e politiche statali centripete tese all’omologazione e all’appiattimento culturale. Parliamo d’altronde di un aspetto non così secondario – o elitista – in un’ottica più generale di costruzione, o meglio, di mantenimento, di una coscienza civica trasversale. A 26 anni dalla fine del regime, gli operai di Solidarność che recitavano le poesie della dissidenza nel corso di scioperi e manifestazioni lasciano oggi a figli e nipoti la possibilità di scegliere tra due strade antitetiche: la crescita di un popolo (anche) attraverso lo strumento dell’arte, o la chiusura in se stessi e il ripiegamento in atteggiamenti antiliberali e nazionalisti. Rimane allora da sperare che la street art polacca, nata come espressione estetica critica nei confronti di un passato oscuro e tormentato, mantenga comunque quell’autonomia d’azione e di pensiero che le è stata propria sin dal principio, scavalcando gli ostacoli istituzionali di un paese che sembra voler far rivivere i suoi peggiori fantasmi.
Insomma, la speranza che, alla fine, il gusto abbia la meglio sulla bruttezza ideologica.
Polonia
* Herbert Zbigniew, “Potenza del gusto”, in Herbert Z., Rapporto dalla città assediata, Adelphi, Milano 1993: 219-220.
** Urso Alex, “Polonia tra paura e cambiamento”, Artribune, VI, 30, marzo-aprile 2016: 36-39.
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Chiunque sappia cosa siano, questi Panama Papers, è stato allo stesso tempo sommerso da una valanga di opinioni sul tema. Sono, tendenzialmente, due tesi:
Gli aderenti a ciascuna delle due visioni hanno, in più, la graziosa caratteristica di considerare gli appartenenti all’altra più o meno come dei miserabili idioti. Eppure hanno torto. Entrambi.
È vero, le aree fiscalmente vantaggiose sono, in astratto, un vincolo molto utile per i governi più rapaci, perchè forniscono un’ancora di salvataggio a cittadini e imprese oppressi da un fisco predatore. Questo è vero per l’Irlanda o la Svizzera, ed è il motivo per cui gli appelli all’armonizzazione fiscale che vengono da certi soloni vanno rifiutati in blocco. D’altra parte, i paradisi fiscali rimasti non hanno niente a che vedere con paesi competitivi, a tassazione leggera, dove vivere o lavorare: a Panama, per esempio, non viveva nessuno. Portavano lì i loro soldi per lo più gli autocrati o i loro famigli, come anche chi deve a ragioni in parte criminali la sua ricchezza – cosa questo abbia a che vedere con la narrativa del gruppo 1, o del gruppo 2, è ad oggi non noto. Come una persona normale, anche molto benestante, possa trovare conveniente mettere lì i suoi soldi rimane, per lo più, un mistero.
Se i paradisi fiscali hanno una relazione con lo stato ladro, è che ne permettono la perpetuazione, diventando il rifugio di chi se ne avvantaggia – ma poi non vuole essere soggetto alle stesse regole. Parlarne con il moralismo della stampa italiana, che li usa per giustificare i metodi criminali di esazione dello Stato Italiano, da qualche lustro abituato a taglieggiare i contribuenti ben oltre il già esoso dovuto legale, grida vendetta e fa rabbia. D’altra parte parlarne in toni elogiativi come se potessero beneficiarne il barista a cui viene chiuso l’esercizio per uno scontrino, il piccolo imprenditore che subisce accertamenti per cifre inferiori al costo del ricorso, il cittadino che paga due volte la stessa tassa comunale o una multa non dovuta, invita alla chiamata di una bella ambulanza.
In entrambi i casi, forse c’è un motivo se l’italiano medio che lavora versa quasi due terzi del suo reddito allo Stato: questa diffusione di narrative fantasiose, e conseguenti rimedi magici, per fatti che richiedono una più serena umiltà. Non finirà bene.
Giovedì è morta Zaha Hadid, archistar britannico-iraniana e icona femminista. Riposi in pace, la sua architettura rimarrà sempre tra noi: forse però questo è un problema.
Quando ci lascia un architetto così importante d’un tratto sono tutti amanti dell’architettura contemporanea.
Se chiedi la ragione di questo improvviso amore, ecco la stupidità umana: “Ha disegnato la modernità…” “… ha dato forma al futuro… ” oppure, “ … le sue forme sono così avvolgenti…” e via dicendo.
Il significato di tali considerazioni è oscuro, ma pare che tutto ciò che è curvo sia moderno e tutto ciò che è moderno sia giusto, un dizionario della marchesa!
Ma tutti voi marchesi, esperti e amanti del bello, sarete pronti ad elogiare la rovina delle città in nome delle curve in cemento armato, dei vetri a specchio lucidi e della vostra totale mancanza di sensibilità?
Si, piace a tutti parlare d’arte, apparire colti e al passo coi tempi. Ma l’architettura di Hadid, e specialmente tutto ciò che essa rappresenta, è un fallimento totale: brutta, violenta, obsolescente, disumana, una penitenza forzata per noi che al mondo siamo ancora. L’eredità di Hadid è una stanza degli orrori, ma storta. L’architettura sinuosa e curva che imita la natura è chiaramente una bufala, giacché non c’è nulla di più innaturale della simulazione della natura. Un albero di cemento armato NON è un albero.
Ma non c’è traccia nei media nazionali di una critica lucida a quel modello architettonico che, partendo dai musei e dalle scuole di architettura internazionali, percola nelle nostre vite con un’infinita e mostruosa serie di edifici giganti, zoppi, mutilati, storti.
Carissimi marchesi, sappiate che quella palazzina in cemento armato che vedete dalla finestra, geometrica, spigolosa, orribile che fa male a vederla, è figlia di quella cultura architettonica.
L’elogio di Hadid, continuo, sicuro, patinato, che strizza l’occhio alla tecnologia e al contempo osserva l’evoluzione dell’arte, è un teatrino penoso di persone poco abili a osservare la società o ancor peggio in cattiva fede.
Non posso credere però che una persona di tale forza, come presumo fosse stata Zaha Hadid, potesse davvero credere a tutto a tutto ciò.
Questo edificio vittoriano, bellissimo, normale, di mattoni rossi e con le decorazioni in marmo, vedete?
Questo è il suo studio, il luogo dove presumibilmente Zaha passava la maggior parte del suo tempo. Ammettilo, Zaha: li hai presi tutti in giro.
Il dibattito sul referendum su questo blog sta assumendo toni sempre più surreali. Oggi il nostro Francesco Del Prato ci spiega che non andare a votare è giusto per dar fastidio a quei fricchettoni del SI, che sono contro il capitalismo, le multinazionali, la Coca Cola, la mamma. Il che mi sembra una posizione ragionata: non votiamo per farvi un dispetto perché siete la parte di Italia che ostacola il progresso. Strano, perché mi pareva di ricordare altre accorate posizioni dello stesso autore che ci spiegavano in lungo e largo quanto sia stata cattiva la sinistra, negli anni di Berlusconi, a dividere l’Italia tra buoni e cattivi, riservandosi la parte dei buoni. Sembra di capire che se lo fa la sinistra va male, se lo fa Del Prato e chi la pensa come lui, cioè chi è di destra, va bene. Ne prendiamo atto.
Un po’ il tenore del secondo post di Luca Mazzone, che però ci aveva regalato un bel primo post documentato, anche se con qualche classica punta di Mazzonismo (tipo robe come “il Post, giornale di sinistra”, daje a ride!). Il secondo post invece ci spiega che quelli del SI sono dei mentecatti perché ce l’hanno con i banchieri e le multinazionali, insomma altri argomenti del tutto esorbitanti rispetto al referendum.
Il punto, è caro Luca, che il fronte del NO, anzi il fronte del NO PERCHE’ PUNTIAMO ALLA ASTENSIONE, non è da meno in fatto di sciatteria e mancanza di argomentazione.
Del Prato e Mazzone si chiedono perché una parte del Paese reagisca a quesiti come quello sulle trivelle votando per dire no alle trivelle stesse come riflesso condizionato. A me viene da dire che basta guardare chi c’è dalla parte opposta e la spiegazione è immediata. Sì, perché se quelli del SI a volte possono spiegarsi e argomentare come un adolescente in fase di ribellione, la parte opposta – con lodevoli eccezioni – appare il solito agglomerato di opinioni e interessi che utilizzano sempre gli stessi argomenti del “bene dell’Italia/ a favore del progresso/ viva lo sviluppo/ per la crescita” e si spende – invariabilmente – a favore di roba come la TAV, l’EXPO, tenere aperta l’ILVA, le Olimpiadi di Roma. Di progetti, insomma, che non si sa mai quanto costino, quanto sviluppo creino, che vantaggi offrano, che conseguenze negative abbiano, e soprattuto sui quali non esiste mai un minimo, ma nemmeno un minimo, di trasparenza, ma che tutti dobbiamo prendere come la manna dal cielo “PERCHE’ SENNO VUOI MALE ALL’ITALIA”.
Ora, mi spiace, ma se si è davvero convinti che il referendum sulle trivelle sia sbagliato bisogna argomentare e spingere ad andare a votare NO, invece di trincerarsi dietro le solite frasi retoriche buone per tutte le occasioni e rifugiarsi nell’astensionismo. Basterebbe fare come nel primo post di Mazzone e portare argomenti e costringere il fronte del SI a replicare. Purtroppo però non avverrà mai perché chi oggi è per l’astensione non è uso solitamente argomentare alcunché. E allora è inutile prendersela coi fricchettoni.
Santé
Ricevo, e volentieri pubblico una replica al mio post di ieri, a cura di Alessandro Gilioli
“C’è una buona ragione per apprezzare il post di Luca Mazzone sul referendum del 17 aprile: perché ne parla.
Mai si era vista infatti, nella storia dei referendum, italiani, una cortina di silenzio così solida attorno a una consultazione popolare, quale che ne sia l’argomento. Siamo a meno di tre settimane dal voto e sia sul servizio pubblico sia sulle emittenti private lo spazio dedicato al referendum è a ridosso dello zero. Siamo al contrario esatto di quanto terrorizzato da Einaudi, cioè il celebre “conoscere per deliberare”. A fronte di una conoscenza prossima al niente, presumibile che la maggior parte delle persone non riterrà di deliberare: peccato che, astenendosi, comunque delibererà, cioè porterà a una scelta.
Vedo che è molto scarsa la sensibilità in merito di Mazzone e che anzi egli non si imbarazza ad assommare l’astensione di chi non vuole cambiare la legge (e non ha la lealtà di votare No) a chi semplicemente non andrà a votare perché non informato e non sensibilizzato sul tema: pazienza, ma questi si chiamano giochetti di convenienza e sono il contrario esatto della politica come confronto etico onesto e leale, così come ce l’hanno insegnato Pannella e i radicali. A proposito, vedo che Mazzone si duole molto per la campagna a suo dire allarmista di chi è contrario alle trivelle vicine alle coste: lo capisco, anche a me i toni lontani dall’understatement e dai contenuti reali danno spesso fastidio. Tuttavia si sa che l’urlo è l’arma delle minoranza silenziate e anche questo – toh – è un insegnamento radicale: quante volte Pannella ci ha strillato di assassinio della Costituzione e di omicidio della democrazia, e con toni assai apocalittici, nello sforzo di farsi ascoltare, di ottenere quell’attenzione che gli veniva negata dai media di regime? È normale – e più che accettabile – una certa enfatizzazione dello scontro per reagire al cloroformio.
Sul resto, sui temi del referendum, Mazzone parla poco. Peccato, perché sarebbe interessante confrontarsi non solo sulle trivelle entro le 12 miglia, sui possibili danni ambientali, sul business dei loro proprietari (causa non ultima del silenzio mediatico sul referendum), sui reali effetti quanto a posti di lavoro di una chiusura che sarebbe progressiva dal 2018 al 2035; ma sarebbe anche interessante il parere di un liberista su una modalità di capitalismo anti competitiva e anticoncorrenziale come quella sottoposta a referendum, che protegge le rendite di posizione a discapito dei newcomer.
Più in generale, sarebbe interessante vedere quali argomenti a favore della contemporaneità tecnologica e dell’economia del futuro si possono addurre nella difesa di un modello economico novecentesco basato su combustibili fossili. O forse, per usare una parola evidentemente cara al nostro difensore delle trivelle, più che interessante sarebbe – per lui – parecchio imbarazzante”